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Attualità del pensiero medioevale

Pubblicato su Studi cattolici, n. 429 [nov. 1996], pp. 774-8.
Rispetto a tale testo l'unica variante è il titoletto, qui aggiunto tra parentsi quadre, “Tommaso non è Aristotele”.

È fin troppo noto che il Medioevo non gode, da ormai un bel po’ di tempo, di buona fama: dai rinascimentali agli illuministi e via fino ai nostri giorni ci si è accaniti a rappresentare tale “età di mezzo” come il ricettacolo di ogni barbarie. Come è fin troppo noto che nell’uso comune l’aggettivo "medioevale" è usato come un termine di inequivocabile insulto. Bisogna in realtà riconoscere che la ricerca propriamente storica del nostro secolo ha in qualche modo reso giustizia alla società medioevale, evidenziando come anche in tale periodo non siano mancati apporti allo sviluppo della civiltà. Non altrettanto però è avvenuto nell’ambito dello studio della filosofia medioevale, che, soprattutto nelle scuole superiori resta nel migliore dei casi una insignificante cenerentola. Più di mille anni di storia della filosofia vengono normalmente trattati in un tempo inferiore a quello dedicato ai pochi filosofi presocratici, il cui calibro teoretico, a uno sguardo spassionato, è di gran lunga inferiore a quello di filosofi come Agostino, Anselmo, Tommaso, Duns Scoto.

In questo articolo vorremmo cercare non tanto di avanzare tesi storiografiche nuove a livello accademico, quanto di proporre, con un occhio alla didattica della scuola superiore, qualche buona ragione da cui tale situazione possa apparire ingiusta e da superare, essenzialmente mostrando come quella medioevale sia a pieno titolo una 1)filosofia originale, un 2)anello insostituibile dello sviluppo del pensiero occidentale, una 3)riflessione carica di spunti tuttora attuali.

1) Evoluzione del pensiero classico?

Un primo tipo di obiezione (tanto più insidiosa in quanto quasi mai formulata in modo esplicito) riconduce esaurientemente la nascita e lo sviluppo della filosofia medioevale (/ispirata dal Cristianesimo) a una evoluzione del pensiero classico. Sulla discontinuità prevarrebbe nettamente la continuità, in ciò ben inteso, che è davvero filosofico, fatti salvi gli elementi surrettiziamente rivestiti di apparente dignità filosofica, ma in realtà teologico-mitologici. La filosofia medioevale non avrebbe dato in tale ottica nessun apporto originale allo sviluppo del pensiero, ma si sarebbe limitata a prendere qua e là materiale già elaborato dalla filosofia classica, e lo avrebbe pigramente ripetuto, con qualche piccolo aggiustamento dove proprio ci sarebbe stata stridente contraddizione col messaggio evangelico. Dunque nel medioevo si avrebbe una “filosofia fotocopia” del pensiero greco, e proprio perciò non varrebbe la pena studiarla con attenzione. In particolare S.Agostino non avrebbe fatto altro che "copiare" Platone, e S.Tommaso Aristotele.

Un esempio di questa impostazione lo vediamo in uno dei manuali che attualmente stanno andando per la maggiore, il Corso di filosofia edito dalla Bruno Mondadori (autori F. Cioffi – G. Luppi – A. Vigorelli – E. Zanette, Milano, 1996), che sostiene ad esempio che “l’incontro tra filosofia greco-ellenistica e cristianesimo (..) non sarebbe concepibile se non all’interno di una più generale evoluzione della religiosità tardo-antica” (p.492). Se il Cristianesimo è fecondamente impattato con la razionalità greca non è quindi in virtù di una sua intrinseca e strutturale forza (come logico corollario della convinzione che il Redentore, oggetto della fede, è identico al Creatore della ragione e del livello naturale, che ne è oggetto), bensì per un fattore estrinseco, la “più generale evoluzione della religiosità tardo-antica”. È perché il pensiero classico già stava andando (per conto suo) verso il monoteismo (in particolare con neoplatonismo), che il Cristianesimo avrebbe potuto incontrarsi con la filosofia. E tale processo “di trasformazione della religiosità antica dal politeismo al monoteismo corrisponde anche [bontà sua, notiamo noi] a una naturale legge di evoluzione” della filosofia (p.493). La tesi di una riduzione della filosofia medioevale a quella classica affiora in modo ancora più netto qualche pagina dopo, quando l’autore sostiene che la diluizione gnostica del Cristianesimo in un “possesso (..) intellettuale del mistero cristiano”, pur combattuta da S.Paolo, finirà con l’imporsi, divenendo “motivo di forza e di espansione religione per il cristianesimo” (p.499). Ciò che di meglio il pensiero di ispirazione cristiana avrebbe pertanto dato deriverebbe dal suo adattamento a un pensiero ellenico, che avrebbe autonomamente raggiunto l’idea di unità anima/corpo, di trascendenza del divino, di superiorità dell’uomo sulla natura(cfr. p. 503).

Così certa divulgazione manualistica. Che ignora ad esempio l’autorevole lezione del Gilson, uno dei maggiori storici della filosofia medioevale, il quale ha al contrario mostrato con abbondanza di argomenti come la filosofia del medioevo, lungi dal limitarsi a ripetere tesi già elaborate dalla filosofia pagana, ha introdotto idee e tesi assolutamente originali, che segnano una netta discontinuità con pensiero classico.

A partire dal modo di pensare il Principio di tutto: non più una entità impersonale, o comunque finita, come per i greci, ma una Realtà vivente, personale, infinita, la pienezza infinita della perfezione. Così cambia radicalmente il modo in cui si può guardare la realtà e quindi la vita: a fondamento ultimo di tutto non sta più una cieca fatalità, il Caso, l’Eimarmene dei greci, a cui lo stesso Zeus deve sottostare; la vita può non essere più un essere trascinati da un ignoto verso un ignoto. Tutto ciò che esiste (di finito) è stato creato, e perciò voluto da un Essere personale, infinitamente perfetto e perciò infinitamente sapiente, buono, potente, dunque tutto ha un senso, può avere un senso buono. È bene rimarcare che vi è stata una riflessione filosofica che ha elaborato razionalmente tali tesi, con i concetti di infinito come perfezione e col concetto di creazione. Non si tratta perciò di apporti etichettabili come sentimentali.

Anche l'uomo non è più concepito allo stesso modo: come ha giustamente messo in rilievo anche il Reale nella sua Storia del pensiero occidentale la filosofia, sotto l’influsso del Cristianesimo, ha rivoluzionato il modo di pensare l'uomo. Questi non è più visto come una parte, ma come un tutto. Da particella di un cosmo divino (la natura per i greci assorbiva in sé il divino, era divina essa stessa) è diventato immagine dell’infinitamente Perfetto, per il quale e al servizio del quale la natura è stata creata. È stata così attribuita all’uomo una dignità e un valore sconosciuti alla cultura e alla filosofia classiche: l'uomo diventa senza paragone superiore al cosmo, e viene sottratto alla cieca necessità della natura per essere il punto di riferimento di tutto il mondo materiale. Ancora: la filosofia medioevale recepisce e sviluppa l’idea cristiana di fratellanza universale, fondando la tesi di una essenziale identità di natura tra tutti gli uomini. Così non aveva pensato ad esempio Aristotele, che poneva una differenza qualitativa tra greci e barbari, uomini e donne, liberi e schiavi. Ma così non avevano visto nemmeno indirizzi di pensiero come quello degli stoici, che pure parlavano di una certa eguaglianza tra gli esseri umani in qualsiasi luogo si trovino. Se non altro per il fatto che solo la filosofia cristiana fonda una accettazione integrale e senza riserve di tutta la persona dell’altro, mentre in una prospettiva di cosmopolitismo (come quello stoico) si fonda al massimo una tolleranza esteriore, civile, che potrà sì apprezzare qualità presenti in uomini di qualsiasi razza, ma non perché siano esseri il cui bene coincide con il mio bene.

Agostino non è Platone

Per venire poi a casi specifici: è innegabile una notevole differenza tra Platone e S.Agostino. Ciò nondimeno il dottore di Ippona viene spesso presentato come un “platonico”. Troviamo ad esempio nell’introduzione a un’edizione scolastica del De vera religione, curata da Marco Vannini (Mursia, 1987), che l’Ipponate porrebbe la razionalità filosofica non solo sopra la sensibilità, ma anche “sopra ogni contenuto “rivelato”, che viene posto acriticamente come vero e da credersi in modo autoritativo” (p.7); a tal punto egli sarebbe platonico che per lui “ragione e fede sono la stessa cosa” (ibidem). La conversione sarebbe anche per Agostino distacco dal sensibile in quanto tale, per volgersi allo spirituale (p.8/9): un perfetto platonismo dunque. Non ci si stupirà se alla pagina seguente l’autore informa che per S.Agostino “Scrittura e autorità hanno valore pedagogico, propedeutico; servono a disciplinare l’anima e a preparare la conversione, ma di per sé non danno luce e verità”(p.10): un Agostino visto dunque non solo come perfetto platonico, ma anche come perfetto gnostico. Infatti dove culmina la vita spirituale, secondo la caricatura dell’Ipponate fatta dal Vannini? Nel possesso dell’Uno: nessuna ascesi, nessuna lotta, nessun cenno al peccato originale; con la stessa facilità con cui certi prodotti tolgono la polvere dai mobili, “in un attimo ci si spoglia di noi stessi, e con ciò appare lo spirito: lo sciogliersi di tutti i problemi, la piena padronanza di tutto, la signoria su ogni contenuto” (p.13). Non tutti i manuali scolastici operano delle alterazioni così grossolane e arbitrarie, ma nella direzione del Vannini in modalità più caute si muovono molti divulgatori.

Ora, è vero che da Platone Agostino prende molto, a partire dalla fondamentale convinzione che la realtà materiale, visibile non sia il livello più profondo della realtà, ma sia un adombramento, una introduzione a qualcosa di molto più grande e consistente, all’immateriale e al permanente. Ma l’immateriale, il permanente di S.Agostino è ben diverso dalle idee platoniche: non è un ciò, un qualcosa, ma un Tu, un vivente Qualcuno. Al freddo, metallico scintillio di uno sciame di anonime e impassibili realtà di perfezione finita, si sostituisce il fuoco appassionato e tenero dell’Agape infinito, che al tempo stesso deborda ogni conoscenza ed è “più me di me stesso” (intimior intimo meo). Anche se il dottore di Ippona usa con abbondanza termini platonici l’orizzonte e il significato del suo discorso è perciò profondamente nuovo. Così la sua idea di illuminazione (connessa a quella di interiorità) è irriducibile a quella di reminiscenza platonica: non si tratta più, come per Platone, di ricordare idee, viste quando l’anima era separata dal corpo; si tratta di aprirsi all'azione diretta e presente di una Presenza personale, il Maestro interiore, con il cui aiuto soltanto possiamo pensare rettamente. E nel concepire il nesso intelletto-volontà S. Agostino non è semplicemente un platonico. Per Platone è la conoscenza che deve precedere e muovere tutto, una mobilitazione profonda e permanente dell’affettività non ha senso per lui dal momento che non c’è un interlocutore personale che interpelli l’uomo oltre la mutevole fenomenicità; per S. Agostino invece l'amore in qualche modo precede la conoscenza concettuale e la orienta, essendo la modalità suprema di rapporto con il Tu divino. Così non si può per lui conoscere perfettamente ciò che non si ama; né l'amore si sazia nella conoscenza di qualcosa, ma solo nell'amore stesso di Qualcuno, Dio, vivente Trinità di Persone.

Anche la concezione del male come non-essere, che spesso viene interamente ricondotta al neoplatonismo ha in S.Agostino una portata sensibilmente diversa. Certo anche per lui il male è una mancanza di essere, ma tale mancanza, nella sua espressione più rilevante (che non è il male "metafisico", ma quello "morale"), non è dovuta alla strutturale imperfezione della materia, vista come in sé cattiva, bensì alla libera scelta della volontà della creatura. Se c’è il male non è perché la materia sia qualcosa di cattivo: è perché la volontà creata (umana o angelica) può essere cattiva, optando per il di-meno e voltando le spalle al di-più proposto dal Creatore dell’essere. In tal modo il male non è più soltanto e principalmente assenza, non-essere (come è parlando del suo livello più generale, il “male metafisico”), ma è anche privazione, mancanza di qualcosa che ci dovrebbe essere. Perciò esso è una ferita dell’essere, e percepire questo è superare una impostazione di ultima non-serietà verso il reale, per porsi in una prospettiva di (lieta) drammaticità.

[Tommaso non è Aristotele]

Come S.Agostino non è riducibile a Platone, così S.Tommaso non è riducibile ad Aristotele, pur utilizzando in abbondanza strumenti concettuali aristotelici. Per il filosofo greco la perfezione suprema è la forma, potremmo dire in termini non rigorosi la struttura generale del mondo, la sua intelaiatura portante; per Tommaso la massima perfezione è invece l’esistente in quanto tale (in termini più precisi l’actus essendi), cioè il concreto. Per Aristotele insomma ciò che davvero conta è solo ciò che l’intelligenza può pensare e capire, dunque la trama generale della realtà (ciò che appunto è oggetto di studio del filosofo), ma da tale ambito è tagliato fuori il concreto, la vita effettiva nella sua quotidianità. La carne e il sangue della esistenza concreta sono per il filosofo greco senza senso, sono dell’essere fortuito, casuale (on katà symbebekòs). Per S.Tommaso ogni esistente, per il fatto stesso di esistere e nella misura in cui esiste ha un valore e un significato: tutto sgorga dalla suprema Fonte dell’essere (l’Ipsum Esse Subsistens) che è anche pienezza di significato e di bene. È infatti a questa radicalità di sguardo che si spinge Tommaso: mentre Aristotele si stupisce per il fatto che il mondo sia così, lo stupore dell’Aquinate è che il mondo sia. Egli insomma non dà affatto per scontato l’esistere, come Aristotele che pensava eterno e necessario il mondo, ma ne fa il centro della propria riflessione metafisica. E da lì può giungere alla tesi, che sopra abbiamo richiamato, che non solo la struttura generale, ma anche il dettaglio del mondo è qualcosa di sensato e di buono. Ed è in tale ottica, sconosciuta ad Aristotele, che Tommaso sviluppa la sua teoria dei trascendentali, in basa alla quale ogni realtà esistente è vera (potremmo tradurre è significativa, sensata) e buona, avendo un rapporto costitutivo con l’Intelligenza e la Volontà di un solo Dio creatore, che lo ha pensato e voluto. Il filosofo greco non si era spinto a pensare la realtà con uno sguardo così unitario, ma si era arrestato ad una pluralità di "settori" in cui l’essere si sbriciola.

Non si può poi non ricordare come nell’Aquinate (ma poco o tanto anche negli altri filosofi scolastici) le prove dell’esistenza di Dio ricevano un sviluppo assolutamente incomparabile a quello delle dimostrazioni dell’esistenza dell’immateriale nella filosofia greca.

Si potrebbero considerare molte altre importanti differenze. Limitiamoci qui ad accennare alla concezione dell’uomo. Aristotele aveva lasciato in sospeso la questione (decida il lettore se marginale) della immortalità personale: che ne è di noi dopo la morte, sopravvive qualcosa di noi, la dimensione più consistente del nostro io, l’anima? S.Tommaso non elude la questione e si sforza di darvi una adeguata risposta: vi è in noi una dimensione immateriale, l’anima, che è propria ad ogni singola persona e non muore con il dissolversi del corpo. In secondo luogo Tommaso individua, oltre alla conoscenza per concetti, che ci consente di trovare la verità ragionando, un altro tipo di conoscenza, la connaturalità. Questa conoscenza non si avvale di ragionamenti ma ha una dignità e una importanza non minore di quelli, e ci rende moralmente certi sulla verità di quegli ambiti che la pura argomentazione non potrebbe raggiungere (è quello che filosofi contemporanei hanno chiamato “certezza morale”).

Concludendo questo primo punto possiamo dire che la filosofia medioevale non è stata una fotocopia di quella greca. Né lo poteva essere se è vero, come lo è, che essa è stata una filosofia sviluppatasi alla luce (o almeno, sotto lo stimolo) della fede cristiana, e che questa non è affatto una concezione riconducibile alla cultura ellenica.

2) Prescindere dal Medioevo?

La seconda obiezione, come abbiamo anticipato, è che la filosofia medioevale, sia pur avendo detto diverse cose nuove, non ha avuto un seguito, non ha lasciato una traccia significativa di sé nella filosofia successiva. Per cui la filosofia moderna si può benissimo comprendere anche prescindendo dal Medioevo.

Anche questa obiezione non coglie nel segno. Vi sono alcune idee centrali nella filosofia moderna, che non possono essere capite se non in riferimento all’apporto cristiano-medioevale. Pensiamo alla fondamentale idea di soggettività. È universalmente accettato che mentre la cultura (e la filosofia) antica sono sotto il segno dell’oggettività, l’epoca moderna e contemporanea hanno in ogni ambito dato spazio alla soggettività umana. L’uomo antico si considerava come uno dei tanti esseri naturali, immerso nel grande orizzonte della natura. Che cosa ha fatto sì che l’umanità occidentale si convincesse di occupare, nella natura, un posto assolutamente centrale nel cosmo, un posto di predominio sulla natura? Che cosa ha dato all’uomo la convinzione della sua specificità? Indubbiamente l’apporto del Cristianesimo è stato decisivo: la convinzione che Dio si sia fatto uomo ha dato all’umanità una consapevolezza del proprio valore incomparabile. Se infatti Dio, l’Infinitamente Perfetto, si è fatto uomo, ed è morto in croce per lui, vuol dire che l'uomo ha per Lui (e dunque ha assolutamente) un valore infinito, è assolutamente stimabile. Crediamo che sia possibile dire che senza il Cristianesimo non ci sarebbe stato il senso della soggettività, il senso della dignità dell’uomo, che noi conosciamo. È dunque di grande interesse studiare come tale idea si sia sviluppata nella riflessione filosofica ispirata al Cristianesimo nei primi dodici secoli della nostra era.

E quando la filosofia (con Hegel, Comte e Marx) farà assumere alla soggettività umana gli stessi tratti di quella divina, identificando l'uomo con Dio, andrà certo ben oltre la filosofia medioevale, ma lo farà conservando l’idea, estranea alla filosofia greca, che la perfezione suprema sia precisamente l’infinito, e che l'uomo in nient’altro possa saziarsi che nell’infinito, sia pur immanente. Dopo il Cristianesimo l'uomo non può più appagarsi del finito.

Un’altra idea fondamentale che la cultura e la filosofia postmedioevale ereditano dal Cristianesimo è quella di storia: non più vista come ripetizione, come ciclicità, o addirittura come arretramento rispetto a una originaria età dell’oro, ma come possibilità di novità. Può accadere, è accaduto qualcosa di nuovo. La storia non è l’eterno ripetersi dell’identico. Il che è vero in un senso per la filosofia cristiano-medioevale e in un altro per molte filosofie in età moderna e contemporanea. Pensiamo all’importanza che ha avuto nelle teorie politiche contemporanee l’attesa del nuovo. Un’attesa inconcepibile, ancora una volta, in età classica: il confronto con Virgilio non regge, perché i teorici della politica postmedioevali (da Rousseau a Marx) prospettano il nuovo come infinitizzazione dell’uomo, e non come un generico salto di qualità che resti a livello finito. Non era certo intenzione del Cristianesimo suscitare visioni politiche totalizzanti (e totalitarie), e tuttavia senza di esso non si riesce a immaginare come l’idea di infinitizzazione avrebbe potuto farsi strada. Anche in campo politico l'uomo non può più appagarsi del finito, e perciò progetta una società perfetta, che gli consenta di essere “come Dio”. Ma si potrebbero enumerare più in dettaglio altri debiti verso la filosofia medioevale.

Gli universali & altro

a) Per esempio la gnoseologia moderna è senza dubbio influenzata dal problema degli universali, che sia pure con diversi nomi, è un tema in essa ricorrente. Come scrivevamo in un precedente articolo “è stato il Medioevo, con le sue approfondite discussioni sul tempo degli universali, sul tema dell'astrazione e della vita dell'intelligenza, sul tema dell'intenzionalità, a preparare il terreno alle indagini gnoseologiche dei moderni, ben più che non la filosofia greca. Ciò che in Platone ed in Aristotele era semplicemente un abbozzo frammentario, per quanto geniale, nei medioevali è diventato, con minor creatività forse, ma con una testarda perseveranza che non è rimasta senza frutti, riflessione organicamente articolata e sistematicità implacabilmente completa.”

b) Pensiamo poi al ruolo attribuito a Dio dalla gnoseologia moderna, soprattutto ma non esclusivamente, nel razionalismo. È noto ad esempio come per Cartesio a Dio sia attribuita una funzione di "ponte" tra le idee e le cose. Ciò era inconcepibile per un filosofo greco. Le prove dell'esistenza di Dio poi non sono certo qualcosa di marginale nella filosofia moderna. Quando Kant critica la metafisica pensa soprattutto alla possibilità di dimostrare quell’esistenza di Dio, che riveste una importanza decisiva per la vita etica. Come non sarebbe stato per un filosofo greco. Ma come poteva essere solo per l’influsso cristiano.

c) Ancora: dove trovare nella filosofia classica l’importanza decisiva della volontà, che tanta parte ha avuto nella cultura moderna, da Cartesio a Rousseau a Sartre? Solo grazie alla mediazione della filosofia medioevale il pensiero moderno supera l’intellettualismo antico, con la sua sottovalutazione della volontà e dell’azione.

d) La stessa scienza moderna, per quanto combattuta ai suoi esordi proprio dalla Chiesa, ha i suoi presupposti nella mentalità biblico-cristiana. Come è stato molte volte osservato infatti, se il Cristianesimo non avesse “desacralizzato” la natura, l'uomo avrebbe continuato a coltivare l’interesse scientifico per finalità non tecnico-pratiche, per finalità di pura contemplazione (o di pura curiosità). Non avrebbe "osato", in altri termini, tenere verso una natura “sacra” un atteggiamento di dominio e di supremazia. Sappiamo invece che la scienza moderna nasce con l’idea che il mondo possa essere non solo conosciuto “nel dettaglio”, ma anche dominato e trasformato praticamente. Senza questa idea di dominio pratico sulla natura materiale, la scienza non avrebbe ricevuto l’impulso che ha conosciuto in età moderna e sarebbe rimasta quello che era in età antica, una oziosa curiosità.

Vi è un ultimo ostacolo da superare: anche ammettendo che davvero la filosofia medioevale non sia una fotocopia di quella greca, e abbia inciso in modo significativo sul pensiero successivo, non si dovrà almeno convenire che si tratti di una produzione filosofica superata, per il tipo di problemi che si pone e per il linguaggio che adotta?

Questa obiezione è senza dubbio la più seria, e non si può negarle una parte di ragione. Nel senso che effettivamente il linguaggio della filosofia medioevale, e in particolare quello della Scolastica, risulta di difficile comprensione alla mentalità attuale, così come incomprensibilmente astruse appaiono molte delle problematiche su cui i filosofi medioevali si sono accapigliati (pensiamo ad esempio al rapporto essenza/esistenza, o alla distinzione tra species impressa e species expressa). Non c’è dubbio che la filosofia medioevale appare lontana e difficilmente accessibile per la nostra mentalità. E non c’è dubbio che senza un lavoro di traduzione essa è destinata a rimanere un rudere che si sa archeologicamente interessante, senza però poterne davvero fruire. Noi crediamo però che oltre la coltre di apparente estraneità il pensiero medioevale abbia molto da dire anche all’oggi. Dato il carattere di questo articolo dobbiamo limitarci a qualche accenno. Chi scrive ha comunque cercato di illustrare in modo più dettagliato questo tema in Medioevo filosofico 1, opera a cui ci permettiamo di rimandare il lettore che ne volesse sapere di più. Diciamo che ci sembra essenziale porsi sempre la domanda “che cosa significa questo problema (questa tesi) per me, per la mia vita e per la vita dell’umanità attuale?” Questa è la chiave ermeneutica che abbiamo cercato di applicare per tradurre appunto un pensiero come quello medioevale, tutto proteso verso l’oggettività, in categorie mentali come le nostre, più incentrate sul riverbero soggettivo di qualsiasi affermazione. Se ai medioevali interessava mettere a tema che cosa sia l’essere in sé, a noi preme focalizzare che cosa sia l’essere per me. E tuttavia la traduzione non è forzatura, l’incontro è possibile, proprio perché i medioevali, pur non tematizzando esplicitamente il risvolto esistenziale-soggettivo, erano ben lungi dall’escluderlo. Verosimilmente esso era presente in loro in modo implicito, irriflesso. Dunque il lavoro che si tratta di attuare (e a cui abbiamo dato da parte nostra un piccolo contributo) può, a partire da una originaria simpateticità verso il pensiero medioevale, evidenziarne la prossimità.

Il mondo è buono

Non vi è qui spazio per esporre in dettaglio come ciò sia verificabile nei diversi rami della filosofia medioevale. Possiamo prendere come esempio (unico, per non dilungarci troppo) la teoria ilemorfica: che cosa significa che il mondo sia composto di forma e materia? Certo, in sé significa che la sostanza corporea si risolve in due principi ontologici, uno di determinatezza, la forma, l’altro, la materia, di indeterminatezza. Ma che cosa significa ciò per me, e dunque non solo per il mondo, ma per il mio mondo (il mio Lebenswelt)? Significa che la realtà è permeata di senso, è non-assurda (in quanto permeata di forme), e al tempo stesso il senso che la permea non è esaurientemente possedibile, è immerso in un fattore di imprevedibilità e di opacità (dimensione della materia).

Richiamiamo infine, dalla conclusione del nostro lavoro, quello che ci pare il suo "spirito", il principio fondamentale, che potrebbe essere riassunto così: “per il filosofo medioevale la realtà è buona, è armonica, tutto in essa ha un senso. Non occorre nessuna violenza per riplasmare tutto in uno sforzo titanico e affannato: il mondo è buono, è permeato di significato. Un significato hanno il tempo e lo spazio” disposti secondo una differenza qualitativa per il bene dell’uomo, un significato lo ha la natura infraumana, permeata di forme sostanziali, che la rendono ordinata e intelligibile, e lo ha la natura umana, che è buona ed è fatta per la felicità. “Il più è già dato. Il più è il già. Lo sforzo, l’ascesi, è proprio nell’accettare ciò che davvero esiste, la realtà per quello che davvero è, andando eventualmente oltre quella apparenza che non è un fattore naturale, ma culturale, che non è nella struttura della conoscenza sensibile, ma nell’adesione della mente a modi di pensare falsi. E accettare ciò che davvero esiste è anzitutto accettare quella realtà che più ci è vicina, e che più difficile da accettare, cioè noi stessi. Il prezzo che il medioevale paga per questa visione sembra all’umanità moderna troppo salato: è la dipendenza di tutto da un Altro”.